di Heiner Müller
traduzione Saverio Vertone
regia Michela Blasi
con Andrea Facciocchi – Marinella Debernardi – Diego Profili – Giuseppe MarzolI – Laura Trevini – Alice Maffi
luci Nando Frigerio
suono Mizio Manzotti
musica a cura di Michela Blasi
grafica Marinella Debernardi e Alice Maffi
costumi e oggetti di scena Extramondo
collaborazione tecnica Nando Frigerio – Roberto Vai – Alessandro Pardi
produzione Extramondo con il contributo del Goethe Institut e ScenaPrima
“Io ero Amleto…” sono le prime parole di Hamletmaschine, con le quali il personaggio inizia la riflessione sulla tragedia. I pensieri e i dubbi dell’eroe si dilatano fino ad abbracciare tempi e temi a noi contemporanei, in una riscrittura che sembra rinunciare ad un finale tragico, catartico, liberatorio. I personaggi sono in preda al disorientamento: scardinano e rifiutano i loro ruoli fino ad arrivare ad una significativa “glaciazione” che forse li preserverà, in attesa di un futuro nel quale le loro parole possano ancora avere un senso. In un’intervista Heiner Müller ha detto: “finché l’uomo non imparerà a fare i conti con il proprio passato non avrà futuro”. Amleto aspetta paziente quel giorno. Nei cinque quadri della piece, le particolari atmosfere sono attraversate da elementi primari come l’acqua, l’aria, la luce e la musica. Qui Extramondo ha fatto incontrare la parola penetrante, provocatrice e “classica” insieme di Müller con l’energia dei corpi dei sei attori che, nelle folli danze e non senza ironia, dimostrano il proprio disagio di esseri umani, ma anche di personaggi, in una realtà non più a misura né per l’una né per l’altra possibilità. Continue le domande e le contraddizioni: non si va più a teatro, ma si continua a recitare; non si fanno più figli, ma c’è chi è disposto a comprare quelli altrui; siamo in piena globalizzazione, ma mai come oggi la discriminazione è feroce. Avere idee proprie non serve, quelle degli altri sono fallite. L’est e l’ovest sono spaventosamente uguali. Le leggi di mercato hanno pieno potere su tutto. Nel grande spazio via via si ammassa una grande quantità di rifiuti. Tutto precipita vorticosamente, forse finalmente si può toccare il fondo. Dentro l’orribile armatura il mare è profondo, l’attesa è selvaggia: tutto è azzerato, forse si può ricominciare.
I sentimenti
sono di ieri Non si pensa
nulla di nuovo Il mondo
si sottrae alla descrizione
Tutto l’umano
diventa estraneo
Heiner Müller 1993
In un’intervista del 1989 Müller dice: “Tra il bene e il male ci deve essere uno spartiacque, magari anche un muro. Ma quando il muro è assediato da una parte e dall’altra da una marea indistinguibile, quando niente è limpido nelle idee, quando la pressione cieca delle cose è troppo forte, il muro e la morale si rompono: rimane qualcosa che bisogna per forza definire estetico, una conoscenza oscura delle percezioni primarie che riguardano la vita e la morte, la cocciuta speranza di strappare forme all’informe. Questo sentimento è forse l’unico barlume di speranza che possa illuminare la storia di questi anni e renderla comprensibile”. E ancora: “La cosa più grande di Shakespeare è che non tutti i conti tornano. Siamo a questo punto: l’unica speranza sono gli errori, i casi fortuiti, ciò che non funziona. Se questi sistemi tecnologici si mettono a funzionare, siamo perduti. Il progresso tende a sostituire la realtà con la sua riproduzione”.
DALLA DIMOSTRAZIONE ALLO SPETTACOLO:
“L’ultimo programma e l’invenzione del silenzio”
studio preparatorio al lavoro su Heiner Müller
Teatro Portaromana – giugno 1999
di Michela Blasi
“Sono nata nel 1961, anno dell’edificazione del muro di Berlino. Io e Andrea abbiamo cominciato a fare teatro insieme subito dopo il 1989: il muro non c’era più. Ci chiamiamo Extramondo perché al nostro esordio eravamo, come tanti, affascinati dal film “Blade runner”. C’erano i replicanti, questi perfetti robot, creazione dell’ingegno dell’uomo, “più umani dell’umano”, questo era lo slogan, artificiali ma umanissimi, come forse dovrebbero essere gli attori. Ma i replicanti, sempre più perfezionati, tanto da non essere distinguibili dell’essere umano, cominciano a porre delle domande pericolose sulla durata del proprio programma, sulla memoria, sulla propria storia. Domande pericolose. L’uomo creatore vede nella creatura un figlio, o se stesso riflesso. Per Müller si apprende attraverso la paura e il terrore è “quell’attimo di verità, quando allo specchio affiora l’immagine del nemico”. I replicanti dell’ultima generazione non devono tornare dalle colonie Extramondo, oppure devono essere terminati. Nell’ingenuità dei nostri esordi forse anche noi aspiravamo a una linea di confine, addirittura alla colonia extraplanetaria di un film di fantascienza americano.
Ci siamo interessati ad Heiner Müller quando qualche anno fa abbiamo avuto occasione di vedere a Milano degli allestimenti di alcuni suoi testi fra cui “Quartetto” e “L’Orazio”.
Siamo stati colpiti dalle immagini e dalle parole. Più recentemente è uscita la raccolta di scritti “L’invenzione del silenzio” ed è stata una folgorazione. Dovevamo confrontarci con Müller e abbiamo scelto Hamletmaschine per questa sfida. Perché un autore tedesco, uno della DDR, uno così difficile, a volte incomprensibile, sfuggente e contraddittorio, che viene da una storia che non è proprio la nostra? Perché crediamo che ci riguardi.
Vogliamo affrontare Müller partendo da alcune domande che ci riguardano. Perché molte donne ben oltre la trentina, fra le quali me, non hanno figli? La Germania è a crescita zero, L’Italia anche. Siamo una generazione che vuole autodistruggersi? Sostenendo il diritto alla vigliaccheria decretiamo la fine della storia? Vogliamo scolarci tutta la birra da soli?
Leggere Hamletmaschine oggi, quando la storia ha raggiunto il testo e tutti noi possiamo “parlare con le onde con alle spalle le rovine d’Europa”, fa impressione. Se vent’anni fa questo testo, il più nero e pessimista, era un presagio funebre e apocalittico, che gode dell’orrore della tragedia, oggi, quando il fondo è stato toccato, ci sembra che proprio in questo testo, che suggerisce un totale smascheramento attraverso una discesa nel corpo (via la maschera da clown, disegnata sulla faccia, via la pelle, via il sangue, “mi ritiro nelle mie interiora” dice l’interprete di Amleto), si possa intravedere un filo di speranza.”